Disforia di genere e educazione sessuale: parliamone
Alessia Pasciuto, 22 anni, di Gaeta, si è da poco laureata con una tesi sulla disforia di genere: ma quanti di voi sanno di cosa si tratta? Ne parliamo in questo articolo.
“Una maggiore conoscenza dell’educazione sessuale può essere uno strumento per andare a scoperchiare dei meccanismi della società che fino ad ora sono stati tenuti nascosti. Se si parlasse di più di educazione affettiva, molte persone avrebbero meno problemi ad esprimere sé stessi”.
A parlare è Alessia Pasciuto, 22 anni, di Gaeta e da poco laureata all’Università di Pisa in Scienze e tecniche di psicologia clinica e della salute con una tesi in cui ha approfondito alcuni aspetti critici della disforia di genere come categoria diagnostica.
“Il mio interesse è nato da un approfondimento affrontato durante l’esame di psicopatologia in cui si criticava la presenza della disforia di genere all’interno del DSM-5, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” spiega Alessia, introducendomi ad un argomento ancora poco dibattuto.
Cos’è, infatti, la disforia di genere? Con questo termine s’intende “una forte e persistente identificazione col sesso opposto e un desiderio di vivere con un genere diverso da quello associato al sesso assegnato alla nascita”.
“L’obiettivo della tesi era quello di dare un’infarinatura generale sull’identità di genere, oltre che sulla disforia, che per definizione è un’alterazione dell’identità di genere” specifica Alessia, sottolineando l’importanza di utilizzare i termini giusti, soprattutto quando si parla di argomenti scientifici. “Ho deciso quindi di esplorare la formazione dell’identità di genere nel bambino tramite uno studio evolutivo per poi arrivare a trattare in maniera critica il DSM”.
Nonostante l’APA (Associazione Psicologica Americana) abbia specificato che la disforia di genere è stata inserita in una categoria a sé stante con l’intento di eliminare lo stigma nei confronti delle persone transessuali, in realtà proprio la sua attuale presenza all’interno del manuale diagnostico costituisce un problema intorno al quale si è creato un forte dibattito.
Difatti, se nel 1990 si è finalmente deciso di eliminare l’omosessualità dall’elenco dei disturbi mentali, il cammino da fare è ancora lungo dal momento che la disforia di genere è tuttora presente e l’accesso ai trattamenti specifici è piuttosto complicato.
“Non mi piaceva l’idea di scrivere una tesi solamente teorica ma ero anche interessata a dare credito all’esperienza di qualcuno: è per questo che tramite i social sono entrata in contatto con un attivista della comunità LGBTQI+, un ragazzo transgender che mi ha spiegato come si svolgono i percorsi di diagnosi psicologica e l’iter per ottenere determinati trattamenti, a partire da quelli ormonali, che sono i più accessibili. La conoscenza della sua esperienza personale mi ha permesso di capire meglio su quali criticità dovessi focalizzarmi.”
Ad oggi, esistono infatti diversi interventi a cui le persone con disforia di genere possono sottoporsi, a partire da quelli psicologici fino ad arrivare a quelli ormonali o chirurgici, a cui però non si può accedere senza una diagnosi: “c’è bisogno di una patologizzazione per accedere ad un intervento e la patologizzazione prevede sempre uno stigma”, mi spiega Alessia.
Non c’è da sorprendersi che esistano ancora delle forti problematiche culturali se si pensa a quanto avvenuto a proposito del DDL ZAN, il disegno di legge presentato in Senato che prevedeva l’inasprimento delle pene contro le discriminazioni ai danni di omosessuali, transessuali, donne e disabili, e che invece è stato affossato lo scorso 27 ottobre 2021 tra gli scrosci e gli applausi di alcuni senatori.
Ma cosa c’è dietro queste discriminazioni? “Il problema è generazionale: da parte dei più giovani ho avuto solo riscontri positivi” racconta Alessia. “La riprova che sia un problema culturale è nelle parole di mia nonna, la quale mi ha confessato che questa tesi le ha aperto gli occhi su una fetta di popolazione che lei non riusciva a capire bene proprio perché figlia della sua epoca” continua, orgogliosa di essere stata compresa dai suoi familiari, nonostante la difficoltà del tema trattato.
“Spesso però mi è capitato di discutere con alcune persone che non comprendono l’esigenza di un cambiamento di genere, perché alla base c’è molta ignoranza sull’argomento. Parlare di più di questo tema e permettere ai diretti interessati di raccontare le proprie esperienze è l’unica soluzione per sensibilizzare e creare consapevolezza. È per questo che sono rimasta molto contenta dell’intervento di Drusilla Foer al Festival di Sanremo”.
A volte il problema, però, è il modo in cui si parla di qualcosa: sui social ci sono troppi “tuttologi” che pensano di poter discutere di argomenti anche delicati senza fornire alcuna validità scientifica. Un lavoro di tesi prevede invece serietà e conoscenze specifiche. Alessia ci tiene infatti a sottolineare che “è fondamentale parlare di queste realtà per far vedere che esistono, ma bisogna farlo bene e con criterio. Soprattutto, bisogna comprendere che alcune tematiche sono di competenza degli psicologi, che hanno le basi adatte per spiegare al meglio di cosa si tratta ed evitare la disinformazione”.
La tesi di Alessia sarà anche pubblicata in un articolo sulla rivista Open Journal of Humanities e noi non possiamo far altro che contribuire alla sua diffusione continuando a raccontare di storie come questa, che ci ricordano che un futuro migliore esiste e risiede nei giovani.
Irene Centola