Carmen, dalle case popolari al dottorato: “studio e Arcigay mi hanno reso libera”
Cresciuta in case popolari con un coming out difficile, Carmen Ferrara, 27 anni, membro di Arcigay Napoli e ricercatrice all’Università Federico II, al Desert Miraje ® racconta “a scuola mi vietarono di andare al bagno delle donne, mi sono rifugiata negli studi”
Quando si parla di attivismo sono molti gli aspetti da trattare: il contesto in cui esso nasce e si svolge, l’impatto che crea sulla comunità e il modo in cui questa risponde ma, soprattutto, cosa c’è dietro le vite delle persone che lo praticano.
Oggi racconteremo la storia di Carmen Ferrara, 27 anni, attivista per Arcigay Napoli e ricercatrice all’Università Federico II.
Mentre la ascolto mi rendo conto che la sua intera vita è scandita da alcuni momenti salienti che hanno influenzato, in un modo o nell’altro, il suo percorso e che tutti hanno in comune un solo elemento: lo stare in comunità e avere degli obiettivi.
“I luoghi associativi sono sempre stati il mio posto sicuro, in cui potevo avere un ruolo preciso. Io vengo da un contesto molto degradato culturalmente, quello delle case popolari del vesuviano: i miei genitori erano analfabeti, le relazioni di vicinato erano violente e non mi soddisfacevano; quindi, mi rifugiai nella scuola fin dall’asilo”.
“Quando ho finito il liceo e volevo andare all’università, mio padre mi disse ‘mica sei la figlia del dottore!’, quindi ho iniziato a lavorare nei call center o come badante e con tanti sacrifici sono riuscita a pagarmi gli studi” mi spiega “Quando sono andata all’università ho trovato un ambiente molto stimolante e degli adulti significativi che mi hanno preso a cuore. Sono stata fortunata: il mio è un dipartimento che ha poche sedi e per me l’edificio è diventato casa. Mi sono iscritta nel 2013 ed ora sono ancora lì a fare il dottorato.”
Carmen ha infatti frequentato la triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali alla Federico II di Napoli e si è laureata con una tesi intitolata “Orientamento sessuale e identità di genere. Immigrazione e accoglienza”, su cui ha poi pubblicato un libro.
“L’idea è nata mentre svolgevo il servizio civile nel 2015: all’epoca ero molto magra e avevo un aspetto androgino. Lavoravo con i minori stranieri non accompagnati: c’erano gambiani, nigeriani, francofoni della Costa d’Avorio e del Senegal. Appena mi videro mi scrutarono a fondo e mi chiesero se fossi maschio o femmina” continua a raccontarmi sorridendo “Io sono una persona non binaria e ho cercato di spiegarglielo, ma per loro erano argomenti abbastanza astratti. Mi hanno risposto dicendo ‘european stuff: queste cose in Africa non esistono!’ Al che mi iniziai ad incuriosire un po’ sul tema. Contestualmente stavo seguendo un corso di geopolitica del Mediterraneo con la professoressa che poi sarebbe diventata la mia “mamma scientifica”.
Attualmente Carmen coordina lo sportello migranti che ha iniziato a frequentare fin da giovanissima ed è molto attiva sul territorio anche con Arcigay Napoli, attraverso il progetto “Semi di Lampedusa” del Comitato Tre Ottobre, grazie al quale effettua degli interventi nelle scuole secondarie di secondo grado.
Le faccio ironicamente notare che dal mondo scolastico proprio non riesce a separarsi e lei mi spiega che non è stato un percorso sempre lineare.
“Dopo la triennale ho avuto una sorta di crisi d’identità perché la mia laurea era molto vaga. Sono andata a lavorare nel Gargano senza cellulare. A fine stagione, quando ho riaperto finalmente il mio smartphone ho trovato tantissimi messaggi della mia relatrice, con la quale avevo mantenuto un bellissimo rapporto.”
“Quando ha saputo che non volevo continuare a studiare ha insistito affinché mi iscrivessi” mi racconta “ho continuato gli studi perché ho avuto la fortuna di trovare altri significativi e adulti molto positivi: dopo un’infanzia brutta, in età adolescenziale sono stata molto fortunata sia perché ho conosciuto Arcigay Napoli sia in università. Sono stati due posti per me molto importanti e tuttora infatti continuo a frequentarli. Ho scoperto che lo studio e la ricerca sono la mia passione e una strada per la libertà”.
Mentre parla trovo molta affinità con lei: lo studio e la vita associativa sono sempre stati anche per me un posto in cui sentirsi vivi. Nel dirglielo, Carmen mi mostra un tatuaggio: è una lettera H scritta in corsivo maiuscolo. “Sono una delle poche persone che la scrive ancora così. Questo tatuaggio l’ho fatto perché simboleggia il mio legame con la scuola fin da quando ho imparato a scrivere, perché l’acca era la lettera più difficile, invece io l’ho imparata subito”.
Le chiedo, però, se ci siano stati degli episodi in cui la scuola non è riuscita a farla sentire al sicuro.
“Al liceo ho avuto una sorta di storia d’amore molto tenera ed ingenua con una ragazza, ma non finì bene. Arrivò a casa una comunicazione della scuola dove venivamo convocate con le nostre famiglie. Inizialmente non capivo il motivo, non è un reato amare una donna. Una professoressa era venuta a sapere tutto e da lì mi venne addirittura proibito di andare al bagno delle femmine” continua a raccontarmi, questa volta un po’ più seriosa “l’unica persona della scuola che ha preso le mie parti è stato un collaboratore scolastico, il signor Luigi, che mi vide andare nel bagno dei maschi. Quando gli spiegai il motivo lui mi mostrò la foto di una ragazza: era sua figlia, morta di leucemia a 20 anni. Mi disse ‘Pagherei per avere mia figlia viva, magari avessi una figlia lesbica‘. Mi diede le chiavi del bagno dei professori e mi disse “vai lì, che c’è anche la carta igienica e il sapone”.
Mentre ascolto le sue parole mi sembra tutto assurdo: la sua vita sembra quasi una serie TV. Carmen mi spiega che non bisogna sottovalutare il contesto nel quale è cresciuta, in cui mancavano i mezzi per entrare in contatto con realtà simili alla sua nelle quali rispecchiarsi e trovare risposte.
Oltre a questi, ci sono stati anche altri episodi salienti della sua adolescenza, come l’essere stata cacciata di casa dai genitori in seguito al suo coming out. Anche il modo in cui è entrata in contatto con Arcigay sembra quasi un caso fortuito.
“Un giorno mi misi su una chat online perché volevo capire chi fossi e lì entrai in contatto con la vicepresidente di Arcigay Napoli. In tutto ciò ero molto confusa sulla mia identità di genere: in associazione mi hanno aiutato molto a comprendere che prima di parlare del mio genere dovevo fare pace con il mio corpo”
Le chiedo quale sia ora il suo rapporto con i genitori: “la mia famiglia ha cambiato idea solo quando un giornale quotidiano pubblicò un articolo sulla mia storia e mio padre si vergognò di ciò che gli altri avrebbero potuto pensare del modo in cui mi avevano trattato. In seguito, ho conosciuto Agedo, l’associazione dei genitori di persone LGBT, e grazie a loro ho capito che non dovevo biasimare la mia famiglia o portargli rancore“
Carmen oggi ha un buon rapporto con i genitori ed è molto serena nel raccontare le sue vicende e, quando alla fine le chiedo quale messaggio positivo voglia lasciar passare, mi risponde che, più che un messaggio, vuole fare un invito a tutti.
“È necessario mettersi in discussione sempre: bisogna riconoscere che in questa società esistono varie ingiustizie e discriminazioni sociali e quello che possiamo fare è provare ad avere uno sguardo critico sui nostri comportamenti, specialmente sui social. Bisogna pensare che rispetto agli altri c’è sempre una complessità e che semplificare troppo non fa mai bene. Non dobbiamo avere paura della complessità: è una cosa bella che richiede un po’ di sforzo, ma sicuramente ne vale la pena”.
Irene Centola