Un balletto per il Centro Laila di Castelvolturno: se puoi dona, altrimenti condividi
Il Desert Miraje Magazine ® torna a parlare di volontariato raccontando la storia del Centro Laila di Castelvolturno, che ogni giorno aiuta bambini e bambine immigrate soprattutto dall’Africa. Nell’articolo, un modo originale e social per supportarlo
“Siamo una famiglia. Il nostro rapporto con loro è come quello di una zia, una sorella, a volte una madre. I miei figli sono cresciuti con i bambini africani. Siamo un po’ africani anche noi. Ma l’ambiente di Castelvolturno è quello che è. Lo sanno tutti: prostituzione, droga, case abusive e molti sono italiani. Il 60% degli arresti domiciliari di tutta la provincia di Caserta risiede qui”.
Si ferma un istante Giselle, figlia del fondatore del Centro Laila di Castelvolturno (CE). Dietro agli occhiali sguardo profondo, non si sofferma all’apparenza, a volte si emoziona. Casacca africana, “Big Mama” la chiamano, oltre la finestra del suo ufficio guarda il centro messo in piedi dalla sua famiglia circa 30 anni fa: un’oasi nel deserto. Chi non ha mai sentito pronunciare questa città in TV perché correlata a una tragedia?
“Castelvolturno è fatta di tanti piccoli centri, come villaggi – spiega – e ogni territorio ha le sue difficoltà. Dichiarati siamo intorno ai 27.000 abitanti, ma probabilmente ci saranno almeno 15.000 clandestini. Negli anni ’80 era una bellissima realtà, dopo il terremoto è iniziata a deteriorarsi. Terremotati, poi immigrati, cattiva amministrazione. È stata violentata. Ma ci sono tante brave persone, si può ancora fare tanto, lo so.”
Il Centro Laila di Castelvolturno è un’associazione di volontariato. Ogni giorno accoglie e aiuta oltre 40 bambini e bambine del territorio, molti di origine africana, ma anche dall’Est Europa. Quello che fanno con loro e per loro non basterebbero 10 articoli per descriverlo. Perché oltre ai servizi come pulmino scolastico, doposcuola, animazione e accoglienza, loro sono una famiglia. Proprio una famiglia, a volte l’unica famiglia che hanno.
“In passato avevamo delle strutture residenziali e facevamo anche accoglienza notturna – continua Giselle, mentre si unisce a noi anche sua figlia – poi per una questione economica le abbiamo dovute chiudere. Facevamo anche accoglienza per le mamme. Fino al ’94-’95 avevamo 43 bambini a dormire, che vivevano con noi. Le mamme ci lasciavano i figli per andare a lavorare o per cercare lavoro. Alcune di loro li portavano da noi e non tornavano a prenderli. Siamo andati a cercarli, alcuni genitori erano stati arrestati, altri ricoverati.
“I bambini con noi stavano bene, si sentivano a casa. Ma la legge oggi è molto più sofisticata, nelle strutture sono necessarie figure professionali e tira un’altra aria. Istintivamente ti viene di aprire le porte a tutti, e vorresti farlo, ma non puoi. La prassi legislativa è lunga. Nel 2009 abbiamo dovuto chiudere la cooperativa che gestiva le strutture”.
“Credimi, sono tutti molto rispettosi e riconoscenti nei nostri confronti, anche se a volte li rimprovero. Mi chiamano Big mama. A me danno più fastidio gli italiani che vengono in estate qui e sporcano, che gli immigrati tutto l’anno”.
Certamente le abitudini dei castellani saranno diverse da quelle della metropoli o della classica città di mare. Anche per i giovani. “Non usciamo tra noi, solo in famiglia – risponde Miriam, la figlia di Giselle, 16 anni, viso pulito e altissima – abbiamo un gruppo di amici: polacche, ucraine, indiane, quasi nessuno è italiano. Noi italiani qui siamo molto aperti, accogliamo tutti. Non c’è razzismo a Castelvolturno. C’è una guerra tra poveri. Ma se un anziano ha bisogno di aiuto trovi degli africani che gli spingono la macchina. O la signora italiana che dà da mangiare al vicino immigrato”.
Non è stato semplice reperire dati. Sui motori di ricerca appaiono soprattutto tragedie, poca ricerca, chissà perché. Di solito come giornale non linkiamo articoli di altri giornali, ma in questo caso è necessario e collaborativo. Da un’inchiesta condotta dal Mattino è emerso che “sono almeno ottanta le case chiuse gestite da nigeriani nella sola Castel Volturno, con concentrazioni a Pescopagano e Destra Volturno. Ottanta covi dove, da quando il covid ha stravolto il mondo, le giovani vittime della tratta sono rinchiuse e ricevono quasi esclusivamente clienti connazionali. La pandemia non le ha salvate, le ha rese semmai ancor più schiave. Perché se prima del covid le madame le mandavano sulla strada dal tramonto all’alba, ora le tengono chiuse nelle connection house”.
Ma come nasce il Centro Laila e perché?
“Ero una bambina quando è stato fondato negli anni ‘80 dai miei genitori, Angelo e Marcelle – risponde Giselle con un grande sorriso – erano imprenditori turistici ed erano stati incaricati da un’associazione sportiva per valutare se tra i primi immigrati sul territorio ci fosse qualche promessa sportiva. Girando tra i ruderi, a quei tempi c’erano solo giovani che raccoglievano i pomodori, papà si soffermò davanti a un’abitazione perché sentì piangere un bambino dall’interno. In quel momento tornò indietro la madre in lacrime e gli chiese di non chiamare le autorità perché doveva andare al lavoro e non sapeva come fare per dare da mangiare al figlio. Mio padre rispose che in inverno aveva poco lavoro e avrebbe potuto badare lui al piccolo. Il giorno dopo ci ritrovammo 43 bambini fuori alla porta.
“Ho perso mio padre da poco – continua Giselle con la voce calda – è morto venerdì scorso. Abbiamo comunicato il funerale la mattina del sabato, sarebbe stato alle 4. Io mi sono ritrovata tutti i bambini del centro attuale e del passato. Erano tutti presenti, la chiesa era piena. È stata la risposta alla domanda che tutti ci fanno, ovvero ‘perché lo fate’? Quella è stata la risposta. Le persone al funerale sono venute a piedi fino al cimitero, mamme e bambini. Un gesto unico”.
È così al Centro Laila, entri ridendo ed esci commossa perché l’emozione è fortissima. Il sabato mattina i bambini si ritrovano al centro, che ha un grande giardino e giocano tutti insieme. Oggi ci siamo anche noi e abbiamo giocato con loro. Aperti, solari, scherzano e sanno stare al gioco. Balliamo insieme, “facciamo una coreografia?” chiedo e subito parte la musica. La musica nasce in Africa, c’è poco da fare.
Una delle cose più belle è vedere bambini italiani, africani e del Sud Est stare insieme e condividere come fratelli. Si respira un’aria di casa, si mangia insieme, non te ne vuoi più andare. Cosa possiamo fare noi per il Centro Laila, mi sono chiesta? Un luogo che per me è speciale, non solo perché ci occupiamo di sociale e si trova a un’ora da casa mia, ma perché qui è cresciuta una persona a me cara che oggi non c’è più. Proprio come uno tra i bambini che oggi sta ballando insieme a me, lo immagino qui e mi sento bene, anche se mi fa male. Non sempre ce la si fa a superare certe cose.
“Ho notato che le persone sono molto diffidenti – continua Giselle – la gente è tartassata da tutto. Da tanti problemi. Molte persone non hanno proprio la testa di aiutare e si sta perdendo la voglia di fare volontariato. Le persone non si rendono conto di quanto sia importante e salutare fare volontariato, fin quando non lo provano.
“Noi stiamo quasi sempre in trincea. Non riusciamo a distogliere l’attenzione dai problemi dei bambini per raccogliere finanziamenti e partecipare ai progetti, occuparci di marketing. Le grandi realtà diventano una sorta di industrializzazione del sociale. La maggior parte del denaro poi va in pubblicità, da noi no. Noi viviamo degli aiuti degli altri e va tutto ai bambini. Andiamo avanti con il 5×1000 e le donazioni delle persone. E ci sono, solo che avremmo bisogno di più costanza”.
Il punto infatti non è l’eroe che viene e fa la grande donazione. Il punto è che se ognuno di noi desse un pezzettino di ciò che ha tutti vivremmo meglio. “Purtroppo al sociale si avvicinano soprattutto le persone che hanno sofferto, perché ci sono passate, sanno cosa significa”.
Per questi motivi noi del Desert Miraje Magazine, abbiamo pensato di lanciare un’iniziativa: “Girls like us”, un balletto inclusivo. Per dare voce alla diversità di genere e alle ragazze come noi, che sanno andare contro corrente. Appoggiate anche da quei ragazzi che sanno fare la differenza.
Oltre al ballo condiviso con i bambini e le bambine del Centro Laila, nei prossimi giorni diffonderemo sui nostri canali social un video realizzato dalle allieve dei corsi di danza e da alcune ragazze della community Desert Miraje (Instagram @desertmiraje – Facebook Desert Miraje – TikTok @desertmiraje). Sarà possibile aiutare il centro in 3 modi:
- donare ciò che si può, anche pochi euro, oppure partecipare al progetto “adozioni a vicinanza” che consiste in un contributo mensile a libera scelta, a partire da 5 euro al mese per sostenere da un bambino a tutti. Bambini che quando vuoi puoi venire a trovare;
- condividere i video sui tuoi canali social e tra i contatti
- accettare la challenge su Instagram e TikTok e ballare anche tu
Prima di andare via saluto i bambini e le bambine. Sembra che ci conosciamo da una vita. Con Rossella dell’associazione Divertiamoci che mi ha portato qui, apriamo insieme cioccolato e pupazzi. I piccoli sono così felici. E io mi commuovo ancora.
Miraja
Giornalista del ventre
“Storie che arrivano alla pancia delle persone”